Di giornalismo e di anelito di libertà si muore. O si vive male, molto male. La tragica vicenda, il feroce attacco al settimanale satirico francese “Charlie Hebdo” che ha lasciato in una lunga rossa striscia di sangue, 12 morti, ha scosso mezzo mondo. Ha fatto vedere come è facile morire per chi ancora non vuole rinunciare ai principìi che ritiene inalienabili, quali la libertà di esprimere le proprie idee, le proprie opinioni. Si muore assassinati a sangue freddo come è accaduto nella redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi; si muore assassinati con la testa tagliata lontani dalla propria casa per mano di fanatici in nome di una religione che, fondamentalmente, non predica queste orribili azioni che di umano non hanno nulla. La violenza fa sempre paura, l’aberrazione criminale (come definirla altrimenti?) scuote nel profondo. Quando gli avvenimenti accadono lontano non c’è la percezione del pericolo imminente, quando tragici avvenimenti si verificano dietro l’angolo dove siamo abituati a passare, allora ci raccapricciano e ci sentiamo tutti in pericolo.
Il fanatismo non ha frontiere, non ha nazionalità, può avere tanti volti. Il terrorismo è imprevedibile nel suo agire, ma prevedibile è il suo operare quando si muove in nome di una “causa”, in special modo se definita “santa”. Chi anima il modo d’essere del “fanatico” che si trasforma in “terrorista” segue tutt’altre ragioni che poco hanno a che vedere veramente con una “religione”: alla base ci sono interessi di altra natura. Andate a scoprire perché nasce una guerra, locale o di più ampia portata quando vengono coinvolte anche forze militari di Paesi che potrebbero rimanere “estranei” perché privi di reali motivazioni per intervenire.
Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” scrive: “Nella guerra culturale che il fondamentalismo jihadista ha scatenato contro il nostro «stile di vita», la libertà la critica, l’ironia, l’irriverenza, il rifiuto del dottrinarismo autoritario, la pluralità dei valori sono il Male da sradicare, il peccato da estirpare, la depravazione da colpire. In Pakistan e in Nigeria colpiscono le scuole, i libri, le ragazze che vogliono frequentare le aule scolastiche. In Europa vedono l’antitesi di ciò che vorrebbero imporre con la forza delle armi: la sottomissione (come recita il titolo del romanzo di Michel Houellebecq), l’obbedienza assoluta, la censura universale, la liturgia della subalternità, la cancellazione di ogni tentazione critica”. Come è possibile contrastare questo stato di cose?
E Umberto Eco, sempre sul “Corriere della Sera”, afferma: “C’è una guerra in corso e noi ci siamo dentro fino al collo, come quando io ero piccolo e vivevo le mie giornate sotto i bombardamenti che potevano arrivare da un momento all’altro a mia insaputa. Con questo tipo di terrorismo, la situazione è esattamente quella che abbiamo vissuto durante la guerra“. Eco aggiunge una considerazione ancora più specifica: “Non mi pare giusto che si dica genericamente musulmani, come non sarebbe stato corretto giudicare il Cristianesimo sulla base dei metodi utilizzati da Cesare Borgia. Ma certo lo si può dire dell’Isis, che è una nuova forma di nazismo, con i suoi metodi di sterminio e la sua volontà apocalittica di impadronirsi del mondo”.
In una situazione simile la professione del giornalista che vuol “raccontare” quanto sta accadendo al di là del Mediterraneo è una “professione a rischio”, e chi esercita questo lavoro ne ha piena consapevolezza. Alla fine si paga di persona. Ma Parigi e “Charlie Hebdo” hanno dimostrato che il rischio non è solo per chi va in luoghi inospitali, ma anche per chi si trova all’interno di una redazione, all’interno di una città dove non potrebbero (o non dovrebbero?) accadere simili episodi.
Che dire del “terrorismo” nostrano, quello che tende a eliminare ogni libertà d’espressione perché certi interessi non vanno toccati, certi personaggi non vanno nominati, e così via discorrendo? Se qualche giornalista incomincia ad andare oltre, ecco, allora o lo si isola o lo si elimina, in un modo o in un altro deve essere spinto nella posizione di non nuocere a questo o a quel potente di turno. Allora, a quel punto, si vive male la condizione di “giornalista”. Di esempi se ne possono fare tanti. Il terrorismo ha tanti volti, e quasi sempre sono volti noti. Ecco perché molti scadono spesso nel compromesso.
Quanto è accaduto ai giornalisti di “Charlie Hebdo” dovrebbe insegnare qualcosa. Senza retorica: la “Libertà” si paga a caro prezzo, ovunque ci si trovi. La solidarietà postuma serve a poco.